Le biblioteche “antiche”, Squillace e Lorenzo Viscido

Il seguente articolo e` apparso pochi giorni fa in WEBTVBORGIA

 

LE BIBLIOTECHE “ANTICHE”,
SQUILLACE E LORENZO VISCIDO
(di Domenico Paravati)

Domenico ParavatiAvevo scritto nei giorni scorsi, proprio qui, su Facebook, un veloce articoletto di commento alla presentazione da parte di Rai Storia delle “più belle biblioteche” in tutto il mondo. Il tema – implicitamente – era : serviranno ancora i libri? Che fine faranno le biblioteche? La carta stampata sarà completamente soppiantata dai nuovi mezzi di comunicazione di massa, internet in primis? Ho fatto una riflessione sui libri antichi, alcuni dei quali, riguardanti la Calabria, sono nella mia biblioteca.
Ci sarà sempre chi li curerà dopo di me, o i miei eredi li butteranno in un angolo, o magari nella spazzatura? E ci sarà chi vorrà ancora leggerli? Più in generale: si sta intervenendo per riprodurli con i nuovi mezzi tecnici? Ho ricordato, a proposito – tessendone l’elogio – la meritoria opera dell’Istituto della Biblioteca Calabrese, a Soriano Calabro, ricordando l’eccezionale amore con cui l’ha curata fino a poco tempo fa lo scomparso prof. Nicola Provenzano, facendo incetta di libri unici e vecchi di secoli, ma anche di più moderni “pezzi”, anche di periodici regionali, come il mio “Corriere di San Floro e della Calabria”, che ora non c’è più.
Sull’argomento é intervenuto, con battute un po’ sconsolate, un personaggio che definirei illustre proprio in materia di libri antichi e comunque di storia antica, soprattutto altomedioevale. Si tratta del prof. Lorenzo Viscido, filologo, latinista di fama, vincitore di premi internazionali ( “Magna Laus” ai Certami vaticani 1983 e 1986, e medaglia d’oro, primo nel mondo, nell ‘85, omaggiato da Papa Giovanni Paolo II; medaglia d’argento al Certame catulliano del 1984; ma soprattutto cultore di un altro e molto più famoso personaggio dell’antichità’, dell’epoca in cui ormai era evidente il declino della civiltà romana: Magno Aurelio Cassiodoro Senatore).
Lorenzo Viscido vive a New York da molti anni, e negli States ha insegnato lingua latina in alcune università, e italiano e latino al liceo scientifico “Scuola d’Italia” in New York. Ma, cosa non sempre riscontrabile in altri studiosi “emigrati”, il suo pensiero costante è per il natìo borgo selvaggio, la “sua” Squillace, certamente erede, almeno per nome, della “Scolacium” che potete ammirare nelle rovine, qualche chilometro più a nord, del Parco Archeologico della Roccelletta (dove, in profondità, dovrebbe esserci la Skylletion greca, e forse, ancora altro…).
Viscido ha pubblicato una traduzione delle Variae del grande ministro dei Re Goti – originario per nascita e certamente per famiglia proprio di Squillace – che descrive come “un grappolo d’uva” attaccato ad una collina (e su questa descrizione in tanti si confrontano: la collina “grappolo d’uva” si identifica o no con l’odierna città, che magari all’epoca dei Goti e dei bizantini si era in parte già trasferita nell’odierno sito per questioni di sicurezza? È infatti difficile immaginare quel quadro – con le altre descrizioni dei campi – posto nelle collinette alle spalle dell’odierno sito archeologico…).
Ma Lorenzo Viscido ha pubblicato anche altri libri. Eccone alcuni :”Studi Cassiodorei”, “Studi sulle Variae di Cassiodoro”, “Studi sul martire Acacio” (S. Agazio, patrone di Squillace-n.d.r.) . Ha approfondito studi su Clemente Alessandrino, San Girolamo, Sant’Agostino , Paolo Diacono, e si è occupato anche di innografia bizantina, scrivendo su tutti questi argomenti tantissimi articoli per riviste altamente scientifiche e comunque specializzate, italiane ed estere. Per concludere. A Squillace è ammirevolmente sorto da molti anni – anche, immagino, per merito del “politico” Guido Rhodio, presente fortemente in loco e anche in ambito regionale da tempo – un “Istituto di Studi Cassiodorei e sul Medio Evo in Calabria”.
Con un accenno a tale fondazione, e forse con un pensiero al decadimento dell’interesse per certe cose, Viscido ha commentato con un “Io ci dormirei, dentro quell’Istituto”, come per dire che per quei libri che vi sono custoditi e per la propagazione della conoscenza verso l’illustre “calabrese” Cassiodoro, egli darebbe l’anima. Sono perfettamente d’accordo. Se bisogna mettere l’uomo giusto al posto giusto, perché -vista la disponibilità- non si pensa a Lorenzo Viscido come curatore attento e costante e senza posa di un’eredità così importante? Si trasferirà egli dalla metropoli americana, capitale del mondo, alla…microscopica Squillace? Bisognerebbe chiederlo a lui. Magari sarà una scelta difficile. Ma tentare non nuoce.
Certo è che con tutte le sue conoscenze sul ministro dei Goti e anche su tutto il resto dell’antichità calabrese, soprattutto altomedioevale, chi meglio di lui potrebbe governare quell’Istituto? Non conosco bene lo stato attuale della Fondazione, ma anche su Internet, alla voce “orari di apertura”, vedo il vuoto. Non sarà che bisogna addirittura prenotare per una visita? Se così stanno le cose, mi chiedo, e in tanti certamente si chiederanno: ma allora, a che servono certe iniziative? Solo per dare lustro apparente alla città, per un utilizzo solo in certe occasioni ufficiali? Per dare gloria politica? Dio ci scansi.
Se a Squillace c’è una raccolta preziosa di antichità calabrese, non solo locale, bisogna fare di tutto perché queste opere siano a conoscenza anche dei “pellegrini”, di quelle persone, tante (anche se non sembra), che non vogliono avere problemi burocratici se decidono di fare nella città del Golfo una semplice passeggiata o intraprendervi uno studio.

Domenico Paravati 

26 commenti

  1. L’Autore di quest’articolo non rende un buon servizio al prof. Viscido propagando inesattezze e sia pur involontarie distorsioni. Il testo della lettera di Cassiodoro da lui citata (Variae 15.12) recita: “Civitas supra sinum Hadriaticum constituta in modum botryonis pendet in collibus, non quod difficili ascensione turgescat, sed ut voluptuose campos virentes et caerula maris terga respiciat”, cioe’: “La citta’, situata sul golfo Adriatico [cosi’ si chiamava allora il mar Jonio] pende dal colle a guisa di grappolo d’uva, non perche’ trae vanto da una difficile ascensione, ma per volger voluttuosamente lo sguardo ai verdi campi ed al ceruleo dorso del mare.”
    Il professor Viscido, che ha tradotto una selezione delle Variae di Cassiodoro, ben sa che Cassiodoro usa spesso il plurale per il singolare; e’ una raffinatezza stilistica, qui ben motivata dal fatto che, se si usasse il singolare “in colle”, il cursus (ritmo) della frase risulterebbe zoppo. Chiunque puo’ salire sulla collinetta del teatro nel Parco archeologico della Roccelletta e trovarsi esattamente nella posizione descritta da Cassiodoro: certo non una difficile ascensione, ma mare e (allora) campi. Da non dimenticare che poche righe piu’ sotto, nella stessa lettera, Cassiodoro parla dei “vicini” vivai, e quelli erano sul mare. Questo per un minimo d’onesta’ intellettuale; ma che bisogno c’e’, per celebrare Cassiodoro ed attirare visitatori, di ricorrere a voli di fantasia? cosi’ facendo si collezionano solo figuracce. Luciana Cuppo

  2. Una curiosita’: l’articolo accenna a libri (antichi?) che sarebbero custoditi all’Istituto Cassiodoro. E qui non capisco: ricordo anni addietro, e senza immaginare nulla, che il professor Rhodio si adoperava, in collaborazione con la libreria Viella di Roma, per dotare la biblioteca dell’Istituto. Ne risulto’ infatti una biblioteca di tutto rispetto, con collezioni notevoli; erano pero’ libri nuovi di zecca. Sono forse confluiti in seguito libri antichi? e se adesso l’Archivio storico diocesano e’ nella sede dell’Istituto, l’Istituto dov’e’?Grazie, Luciana Cuppo

  3. Domenico Paravati

    Gentile Signora Cuppo,
    lei stessa mette in dubbio (con una parentesi) che io mi sia voluto riferire a libri antichi originali. Non era questa la mia intenzione e quindi non capisco il Suo rilievo . Sulla collocazione della Scolacium cassiodorea ho già scritto qual è la mia debolissima tesi, perchè sono solo un giornalista, non un archeologo e tanto meno un latinista come il prof. Viscido. Sono originario di San Floro e non di Squillace, e quindi – Le assicuro- io per primo sarei stato felicissimo di “vedere” la Scolacium del ministro di Teodorico sulle collinette – o su una sola di esse- intorno agli scavi a soli otto km dal mio paese; ma proprio non ci riesco, mi creda; anche considerando che la vecchia città, quella classica, era (è) in pianura, sepolta ora da un ampio strato di terra per lo scorrere inesorabile del tempo. Il suo riferimento alla collina del teatro…Beh, la cosa mi fa proprio ridere, perchè il teatro è su un piccolissimo rilievo, e certamente non si può parlare di collina dalla quale “la città pende come un grappolo d’uva” (la città era soprattutto “sotto” il teatro). Beata Lei che la vede così! Mentre l’attuale Squillace potrebbe ben essere stata un sostanzioso nuovo nucleo sorto nel quinto-sesto secolo sulle proprietà personali di Cassiodoro, che proprio lì intorno – sembra abbastanza sicuro- ha poi fatto sorgere il Vivarium, il Castellense e già vi era la famosa vasca con i pesci (credo di averla vista tra gli scogli “ai piedi del Monte Moscio” e non sulla spiaggia della Rocceletta, nella sabbia …). Proprio in quell’epoca molte altre città greco-romane hanno fatto il gran salto dalla pianura alla collina per insalubrità e pericoli vari…E inoltre, la bella descrizione del sole che sorge…Quello spettacolo – compreso quello dei campi – è più logico da godere(e da inserire in una descrizione quasi poetica del “natìo loco”) da un punto alto, panoramicissimo, che non dalla pianura dell’attuale Roccelletta ….Quanto alle figuracce…Beh, in cinquant’anni di giornalismo, anche a livelli alti (molto alti), è la prima che colleziono, che io sappia. Meglio tardi che mai. Sperando che non sia Lei ad essersi sbagliata…
    Con i migliori saluti

    • Gentile dottor Paravati,

      su Squillace e’ fondamentale quel che dice Cassiodoro, e ne parlero’ nella mia risposta al professor Viscido: la Squillace romana era vicina ai vivai.

      Supponenza e “potrebbe essere” non giovano al piu’ e piu’ volte auspicato sviluppo turistico-culturale del territorio; gioverebbe invece far conoscere alle nuove generazioni, cominciando dai piu’ giovani, le loro radici culturali. Vogliamo scommettere un caffe’ nel bar sulla piazza della Cattedrale di Squillace che, se qualche docente mi offre gentilmente ospitalita’ nella sua classe per parlare ai ragazzi in una scuola locale, ne verrebbe fuori una conversazione su VERE figure di Squillace quali, oltre a Cassiodoro, ad esempio il vescovo Giovanni? (lo potete trovare su questo sito nella sezione “Storia”). Vi sono indizi che egli lascio’ la sua firma alla fontana di Cassiodoro – si’, proprio quella che gli abitanti di Staletti’ si ostinano a non vedere, a suo tempo le tolsero persino il nome, chiamandola Aretusa!!! Ho aggiunto una foto della relativa iscrizione (la qualita’ e’ quella che e’, ma cerchero’ di far meglio alla mia prossima visita), e chi vuole puo’ trovarla a:
      http://www.centreleonardboyle.com/ciac2.html .
      Ma ripeto: che bisogno c’e’ di dettagli topografici per far di Cassiodoro e del suo Vivarium un centro d’attrazione e d’istruzione? come ha giustamente rilevato ilprofessor Viscido, questa e’ materia per gli archeologi, e si puo’ e si deve promuovere l’immagine di Squillace senza bisogno di collocare il monasterium vivariense e la Squillace romana nella piazza principale del centro storico.

  4. Colli o colle? È certa Lei, gent.ma professoressa, che, scrivendo “collibus”, Cassiodoro si riferisse a un colle e non a colli? La ringrazio, intanto, per aver precisato che io “ben so” che l’illustre squillacese “usa spesso il plurale per il singolare” e che tale impiego costituisce “una raffinatezza stilistica, qui ben motivata dal fatto che, se si usasse il singolare… ‘colle’, il cursus (ritmo) della frase risulterebbe zoppo”. Senza dubbio Cassiodoro fa sovente uso di un plurale in luogo di un singolare. Ne è prova il “pluralis abstractorum” citato dal Traube nel suo “index rerum et verborum” (p. 568). Mi permetto tuttavia di farLe notare che, nel caso in quel passo delle “Variae” fosse stato utilizzato il singolare “colle”,Cassiodoro avrebbe impiegato una clausola conforme al “cursus planus” (“pendet in colle”), clausola cretico-trocaica frequente nella sua silloge (cfr. A.J. Fridh, Etudes critiques et syntaxiques sur les Variae de Cassiodore, Göteborg 1950, p. 6) . Che egli, poi, abbia scritto “collibus” non desta alcuna meraviglia, nemmeno sul piano ritmico, se si considera che l’espressione “pendet in collibus” è una clausola del cosiddetto “cursus tardus”, anch’essa frequente nelle “Variae” (cfr. Fridh, cit.), clausola che per Cicerone sarebbe una splendida dicretica. Quali potessero essere con certezza, tuttavia, le intenzioni di Cassiodoro è cosa che difficilmente può essere risolta solo in termini di grammatica. Molto più sensato, invece, mi sembra partire dalla realtà topografica. Bisognerebbe cercar di comprendere, quindi, se con il termine “collibus” Cassiodoro volesse indicare le colline sovrastanti i ruderi della Squillace romana (area dell’odierna Roccelletta di Borgia – in tal caso, però, come si spiegherebbe la “difficilis ascensio” di cui parla il Nostro? –) oppure le sommità collinari della Squillace d’oggi. Ma questo è un problema che va risolto dagli archeologi.

    • Gentile professor Viscido,

      grazie per i riferimenti a Fridh ed al cursus, ne faro’ tesoro. Effettivamente, dal punto di vista linguistico e’ difficile pronunciarsi in un senso o in un altro; la frase “non perche’ [Squillace] trae vanto da una difficile ascensione” si puo’ prendere letteralmente, cioe’: la citta’ si raggiunge dopo una difficile ascensione, oppure ironicamente, cioe’: Squillace pende dalla collina/colline, non per vantarsi della difficile ascensione [che non c’e’], ma perche’ vuole godersi il panorama mozzafiato. Io ho pensato all’ironia a motivo del congiuntivo ‘turgescat’ che puo’ equivalere ad un “ma non dico sul serio”, ma potrebbe anche essere un semplice caso di attrazione modale.
      Sono determinanti, pero’, i “vicini” vivai. Perche’ questi, ci dice Cassiodoro in Var. 12.15, erano vicini alla citta’, ma anche sulla costa: “ad pedem siquidem Moscii montis saxorum visceribus excavatis fluenta Nerei gurgitis decenter immisimus”, etc. (poi parla dei pesci). [traduzione di servizio, non ho a mano quella del prof. Viscido: “dopo aver scavato le viscere della roccia ai piedi del monte Moscio vi abbiamo piacevolmente immesso le onde del risucchio marino”]
      Se Cassiodoro fece “immettere” le onde marine nelle viscere della roccia ai piedi del monte di Staletti’ (monte Moscio), cio’ puo’ essere avvenuto solo dove la parete del monte incontra la spiaggia,cioe’ dov’e’ ora la spiaggia di Copanello, sotto il tunnel di Copanello e poi – procedendo verso Squillace Lido – al massimo fino all’altezza dell’odierno Hotel Il Gabbiano. E “saxum” (roccia, pietra) vuol dire pietra in genere, ma si usa anche per la roccia tufacea (Saxum Rubrum) e guarda caso, mi dicono che il terreno a Copanello Basso e’ appunto tufaceo. I vivai, che non erano tinozze ma un sistema di bacini comunicanti, potevano poi estendersi fino alla foce dell’Alessi; e qui si’, ci vorrebbero gli archeologi di quella Soprintendenza che finge di non sapere. Comunque, rispetto ai dati delle Variae l’odierna Squillace risulta fuori tiro. Ma ripeto, che importa? sono certa che Lei, se chiamato a farlo, contribuirebbe alla cultura di Squillace anche senza volerci porre fisicamente pesci, vivai e monastero.

  5. Domenico Paravati

    Gentile Professoressa Cuppo,
    dal tono della Sua risposta mi pare che qualche dubbio cominci a farsi strada anche in Lei. Torno ad assicurarLe che sarei più felice di Lei se potessi vedere la Squillace di Cassiodoro (non quella di qualche secolo prima!) nell’attuale scavo della Roccelletta. Oltretutto- ma non posso qui dilungarmi – conoscono bene il mio nome alla Soprintendenza di Reggio per l’ossessiva insistenza – da anni ed anni, con denuncia anche ai Carabinieri di Girifalco- per ulteriori scavi anche lì intorno dove mi risulta che esistono un’infinità di segni “antichi” (e forse addirittura pre-greci; dico forse…Io dubito sempre di tutto, anche di me stesso).E mi sono dato da fare fin dal 1961 – prima di Giovanni Gatti- perchè iniziassero proprio quegli scavi alla Roccelletta con una serie di articoli sul “Mattino” di Napoli (avevo solo ventun anni; v. prot. 1516 del 31 luglio 1961; e prot.241 del 5 febbr. 1962 negli archivi della Soprintendenza di Reggio C.: sono risposte-non risposte, come è quasi prassi da quelle parti, di De Franciscis e poi di Foti ad una vera e propria relazione su quanto ho “visto” , nell’area tra San Floro, fiume Corace e Roccelletta). Questo per ribadirLe quanto sarei felice se a quell’area si aggiungesse anche la Squillace di Cassiodoro…Ma, con tutti gli sforzi, non riesco ad ingannarmi. Cioè non “vedo” la Scolacium di Cassiodoro (quella di Cassiodoro!) lì in pianura; mentre egli si riferisce senza mezzi termini a colli o ad un colle, che immagino abbia una certa altezza, e sennò che colle è; alla vista meravigliosa dei campi (e dalla Roccelletta-scavi, in pianura, è un po’ difficile spaziare con la vista sulla bellezza dei campi lì intorno); e poi quel sorgere del sole…Ma come fa Lei a vedere alla Roccelletta quel “grappolo d’uva”, ecc. ? Suvvia, faccia uno sforzo, e si renderà conto che è veramente difficile vedere la Scolacium del ministro di Teodorico sulla piana del Corace , mentre è molto, molto più facile vederla lassù in alto. Sempre Scolacium era, ma trasferita, magari un po’ più …moderna; capita spesso anche adesso con le città “antiche” che , con il tempo, hanno una “coda” in un posto diverso; anche se è vero che prima dal mare si rifugiavano in collina; ora dalle colline si riversano sul mare: come sta capitando, paradossalmente, anche all’odierna, ultramoderna Squillace, che è ormai forse più sul mare che non in collina. O a Catanzaro. Le “migrazioni” degli abitati sono storia di sempre, a seconda dei momenti e quindi delle necessità. Credo che sia avvenuto anche all’epoca di Cassiodoro, quando in riva al mare si cominciava a sentire puzza di bruciato perchè ormai le legioni romane erano un sogno mentre avanzavano dall’est tanti “stranieri”(Goti compresi). Del resto: si è chiesta perchè del Vivarium si siano perse le tracce in così poco tempo? Sarà stata colpa dei Longobardi, come dice qualcuno, che certamente hanno provato a spingersi fin laggiù anche se poi non gli è andata bene per colpa dei bizantini? Come vede, la storia è movimento. Il mio stesso paese, San Floro, nel 1960 aveva 1500 anime; ora poco più di 500…Gli altri sono emigrati. Me compreso.
    Un saluto cordiale
    Domenico Paravati

    • Le tracce del Vivarium non si sono perse, tutt’altro. La fontana di Cassiodoro ne conserva alcune – indirettamente. Ho capito questo grazie alla dott.ssa Adele Bonfiglio, della Soprintendenza ai Beni Culturali della Calabria, durante il sopralluogo da lei effettuato il 14 marzo dell’anno scorso. Ne parlero’ al prossimo International Medieval Congress di Leeds il prossimo luglio, e nel frattempo Lei puo’ consultare:
      http://www.centreleonardboyle.com/ciac1.html
      Cordialmente, Luciana Cuppo

  6. Gentilissima Professoressa,
    con riferimento a quel che Lei chiama “ironia”, da non escludere, secondo il Suo giudizio, “a motivo del congiuntivo ‘turgescat’ che può equivalere ad un ‘ma non dico sul serio’” e che fa parte di una proposizione causale obliqua (“quod difficili ascensione turgescat”), stilema, questo, frequente nelle “Variae”, come già nel latino classico (cfr. B.H. Skahill, The Syntax of the Variae of Cassiodorus, Washington, D.C. 1934, p. 214), mi riesce purtroppo difficile condividere il Suo rilievo. Sono del parere, infatti, che nella “lyrical description” di Squillace, “description” così definita da Arnaldo Momigliano in “Proceedings of the British Academy” 41 (1955), p. 214, Cassiodoro fosse per nulla ironico, ma sincero e preciso. Insomma, tramite l’uso dell’espressione “difficilis ascensio” egli conferma quanto scritto poco prima (“Civitas… in modum botryonis pendet in collibus”), cioè l’esatta posizione del suo luogo natio che, siccome “pendet in collibus” come un grappolo d’uva (“in modum botryonis”), di conseguenza ha una “difficilis ascensio”. E allora? Forse che l’immagine del grappolo non si adatta a far risaltare l’erta posizione di una città? Quel che dunque Cassiodoro vuol dire è questo: Squillace sta sospesa a colli come un grappolo d’uva e tale aspetto la farebbe gonfiare di superbia*; ma essa non si inorgoglisce affatto per questa sua forma di “botryo” che le crea una “difficilis ascensio”. Al contrario, trovandosi in una posizione elevata, piacevolmente osserva “i verdeggianti campi e la cerulea superficie del mare”.
    Aggiungo che l’autore delle “Variae” è sempre bene attento nel descrivere la morfologia di un territorio. Come, infatti, ha giustamente rilevato Bruno Luiselli (Storia culturale dei rapporti tra mondo romano e mondo germanico, Roma 1992, p. 681), spesso egli “paragona, evidentemente… in base alla osservazione di mappe geografiche, regioni e luoghi particolari a varie e determinate figure”. Ne sono esempi “Var”. III, 48, 2 (“in… fungi modo” = “a guisa di… fungo”), VIII, 32, 1 (“in coronae speciem” = “a forma di corona”) ecc.
    Circa i vivai, trattandosi di “claustra Neptunia” creati “ad pedem… Moscii montis” mediante scavi fra le rocce (“saxorum visceribus excavatis”), nei quali era stata immessa acqua di mare (“fluenta Nerei gurgitis… immisimus”), non è vero, a mio avviso, che “ciò può essere avvenuto solo dove la parete del monte incontra la spiaggia” o, meglio, “dov’è ora la spiaggia di Copanello”, e che tali vivai “potevano estendersi fino alla foce dell’Alessi” (dove, però, non esistono rocce).
    Considerato che col termine “spiaggia” si indica una “striscia pianeggiante, sabbiosa o ghiaiosa, che costeggia il mare” (T. De Mauro, Il dizionario della lingua italiana, Torino 2000, s.h.v.), le Sue osservazioni farebbero credere che i “claustra Neptunia” non siano nel luogo in cui la spiaggia è inesistente. Doveva invece trattarsi, sempre a mio avviso, di caverne tra gli scogli, se è lo stesso Cassiodoro a scrivere “fecimus… illic (= nelle vicinanze del mare) iuvante Domino grata receptacula, ubi sub claustro fideli vagetur piscium multitudo, ita consentaneum montium speluncis ut nullatenus se sentiat captus, cui libertas est escas sumere et per solitas cavernas abscondere” (“Inst”. I, 29, 1: ed. R.A.B.Mynors, Oxford 1937, p. 73). Il sito di queste “cavernae” o “speluncae”, quindi, va identificato in quello compreso tra gli scogli di Copanello, in gran parte nell’area sottostante i ruderi della chiesetta di San Martino (ne ho già parlato nei miei Studi cassiodorei [Soveria Mannelli 1983, pp. 54-55] e nelle mie Ricerche sulle fondazioni monastiche di Cassiodoro e sulle sue Institutiones [Catanzaro 2011, p. 45]). Utili anzi, a tale riguardo, sono le raffigurazioni del monastero Vivariense contenute nelle miniature dei manoscritti Misc. Patr. 61 della Staatsbibliothek di Bamberga (f. 29v), Kassel, Gesamthoschul-Bibliothek, Theol. 2. 29 (f. 26v) e Wurzburg, Universitätsbibliothek, M.p.th. 29 (f. 32r).

    Cordialmente
    Lorenzo Viscido

    *Con l’equivalente in inglese di questo significato il verbo “turgescere” è stato tradotto da S.J.B. Barnish nel suo volume Cassiodorus: Variae. Translated with notes…, Liverpool University Press 1992, p. 169; con quello di “inorgoglirsi” da L.W. Jones (An Introduction to Divine and Human Readings by Cassiodorus Senator, New York 1946, p. 6); con quell’altro di “se dresser orguelleusement”, sempre in relazione al passo cassiodoreo qui discusso, da A. Blaise (Dictionnaire latin-français des auteurs chrétiens, rist.,Turnhout 1967, s.v. “turgesco”). Invece per O.J. Zimmermann (The Late Latin Vocabulary of the Variae of Cassiodorus, Washington, D.C, 1944, p. 129) il verbo in questione viene usato, in quel passo, nel senso di “to swell, to rise or extend upwards”. Questi ultimi due significati sono stati registrati, relativamente al medesimo passo, nel glossario di A. Souter (A Glossary of Later Latin to 600 A.D., Oxford 1949, s.v. “turgesco”).

    • Gentile professor Viscido,

      (1)per quanto riguarda il significato di “turgesco”: non ha dimenticato di citare il Thesaurus Lingua Latinae? dovrebbe essere la prima fonte di riferimento.
      (2) Per quanto riguarda l’assoluta sincerita’ di Cassiodoro nel parlare di Squillace: non ha per caso dimenticato che Cassiodoro segue un topos retorico, come ben evidenziato a suo tempo, in una recensione a “Cassiodorus” di O’Donnell, il prof. MacDonough?
      (3) Per quanto riguarda le “vasche” a San Martino di Copanello: quanti pesci pensa ci possano stare? ed i pesci dovevano nutrire un convento, un ospedale + stabilimento termale, nonche’ venir venduti con profitto. O ha dimenticato che Cassiodoro PRIMA fece scavare, POI fece immettere l’acqua marina nei canali cosi’ scavati? e dove sono i canali a San Martino di Copanello?
      Quante assurdita’, caro Viscido. Cordialmente, Luciana Cuppo

  7. Gentile Professoressa,
    (1) non ho citato il “Thesaurus Linguae Latinae” in quanto il fascicolo contenente il verbo “turgesco” non è stato ancora pubblicato. Tanto è vero che, non essendone certo, avevo chiesto informazioni alla redazione del ThLL, da cui mi è stato risposto così: “Dear Professor Viscido,
    the current publication of the ThlL is at the very beginning of the letters N and R. God knows whether the end of T will be published in this or rather the next century … Best wishes! Gerard Duursma”. Si aggiorni, quindi, cara Cuppo! E poi, crede Lei che il ThLL avrebbe registrato un significato tale da rendere diverso il senso del passo cassiodoreo? “Gonfiarsi”, “inorgoglirsi”, “innalzarsi”: l’immagine della “civitas… in modum botryonis” che “difficili ascensione turgescat” non cambia;
    (2) so benissimo che Cassiodoro fa spesso uso di “topoi”. Lei ha menzionato la recensione di MacDonough, come se egli avesse l’autorevolezza dell’ “ipse dixit”. Io, però, ho dettagliatamente discusso di quell’argomento (ma per quanto concerne un’altra “Varia”) nel lontano 1977 in “Vetera Christianorum” (Università di Bari) e successivamente nei miei “Studi sulle Variae di Cassiodoro” (Soveria Mannelli 1987, p. 25), dove scrivevo: “In primo luogo desidero puntualizzare che, sebbene le lettere di Cassiodoro risentano molto dell’influenza della retorica – il che indurrebbe a pensare ad una prosa artificiale, priva di sinceri stati d’animo da parte di chi scrive –, sono tuttavia innegabili nello scrittore degli scatti di amore idillico, che non sono, a mio parere, immagini offerte dalla retorica, bensì schiette effusioni di un animo nobile e profondamente sensibile. Si può in effetti asserire che in Cassiodoro retorica è soltanto la forma esterna della lettera, la cornice del quadro; ma all’interno c’è il suo sentimento puro…”. Il che, ovviamente, vale anche per “Var.” XII, 15, in cui, pur tramite una digressione, Cassiodoro tesse un sincero elogio del suo luogo natio. D’altronde colpiva nel segno il Fridh quando osservava che “l’emploi des digressions est devenu, chez Cassiodore, un style manieré qui ne sert que d’ornement extérieur” (“Terminologie et formules dans les Variae de Cassiodore”, Stockholm 1956, p. 19). Le sarei grato, tuttavia, se Lei riuscisse a dimostrarmi che unico intento dello scrittore squillacese era quello di fare sfoggio di bravura retorica e di tracciare un falso quadro della sua patria;
    (3) circa la quantità dei pesci nelle vasche di San Martino, la domanda dovrebbe rivolgerla a un pescatore o pescivendolo;
    (4) non ho affatto dimenticato che Cassiodoro prima fece eseguire degli scavi e poi fece immettervi acqua marina (l’ho scritto già nel mio precedente commento);
    (5) circa “i canali”, sono trascorsi tanti secoli, ma bravi archeologi potrebbero dar riscontro alla Sua domanda. Se mi permette, comunque, Le suggerisco di leggere le prime due pagine dell’articolo di Raffaella Farioli “La Trichora di S. Martino e il monastero Vivariense sive Castellense di Cassiodoro”, apparso in “APARCHAI. Nuove ricerche e studi sulla Magna Grecia e la Sicilia antica in onore di Paolo Enrico Arias”, vol. II, Pisa 1982, pp. 669-677.
    Concludo. Quali sarebbero le mie “assurdità”? Non aver consultato il TLL perché il fascicolo contenente “turgesco” non ha ancora visto la luce? Aver dimostrato che nella sua “lyrical description” Cassiodoro era stato per nulla ironico, ma sincero e preciso? (Mi dimostri Lei il contrario!) AverLe fatto notare che “pendet in collibus” costituisce una clausola del “cursus tardus” frequente in Cassiodoro? Forse l’avrò delusa nel risponderLe che la Sua domanda sui pesci dovrebbe farla a un pescatore o a un pescivendolo. Questo, purtroppo, non è il mio mestiere.
    Cordialmente
    Lorenzo Viscido

  8. Mi sono dimenticato di aggiungere che nemmeno io e Lei abbiamo l’autorevolezza dell’ “ipse dixit”. Cerchiamo solo di accostarci alla verità, a cui non sempre si arriva.

    • Caro Viscido,

      sull’accostarci alla verita’ e sull’ipse dixit sono cordialmente d’accordo, e penso che, con queste premesse, ci sia veramente lavoro per tutti. Cio’ detto, mi consenta qualche osservazione currenti calamo sui punti da Lei elaborati nel suo post precedente:
      (1) riguardo al suo punto (1) ed ai sentimenti da Lei espressi nel 1977 e poi nel 1987 (edizione di -penso? – Rubbettino, Soveria Mannelli): tali sentimenti si trovano pari pari in ‘La grande Grece’ di Lenormant, pubblicata nel 1881 e ristampata nel 1961. Essi sono in linea con l’interpretazione data per generazioni dai Marincola riguardo ai “luoghi cassiodorei”. E colgo qui l’occasione per ringraziare, con 13 anni di ritardo, perdonatemi, Antonio Marincola Politi ed Umberto Corapi, che il 25 ottobre 2001 mi inviarono in omaggio “Il segreto dei Bretii. Romanzo di uno scontro di civilta’”. E da Lenormant ad oggi, ne e’ passata dell’acqua sotto i ponti.
      (2) Riguardo al TLL: vero che il volume con la T non e’ ancora stampato, ma e’ altrettanto vero che le schede preparatorie sono a Monaco a disposizione degli studiosi e possono venir scansionate e spedite a chi ne fa richiesta. Ci ha pensato?
      (3) Riguardo a quelli che Lei, all’apparenza sprezzantemente, definisce “pescivendoli”: ho chiesto e chiedero’ a chi ne sa molto piu’ di me sulla pesca e sull’allevamento pesci, ed ho imparato molto da queste persone; l’erudizione accademica non puo’ e non potra’ mai sostituire il buon senso. Ma se Lei preferisce i testi classici in materia di pesci, ha mai provato a leggere Columella? il quale, come Lei ben sa, era consigliato e stimato da Cassiodoro e faceva parte della biblioteca di Vivarium. Aveva anche lui parecchio da dire su pesci e peschiere, e sarebbe bene leggerlo per vedere come i romani praticavano l’allevamento dei pesci nei vivai – con buona pace di Pierre Courcelle e dei suoi accoliti.
      Buona giornata, Luciana Cuppo

  9. Signora Cuppo,
    (1) che i “sentimenti” da me “espressi” si trovino “pari pari” nell’opera del Lenormant è un’affermazione che non Le rende onore. Come Lei sa, in italiano “pari pari” significa “senza nessuna variazione”, “alla lettera”. Ebbene, a distanza di anni ho riconsultato quell’opera e là dove si parla di Cassiodoro (“La Grande-Grèce”, II, Paris 1881, pp. 343-373 e “passim”) ho potuto constatare che nulla prova che “pari pari” vi “si trovano” i miei medesimi “sentimenti”. Anzi, per amor del vero, qualcosa c’è e riguarda l’ultima parte di “Var.” XII, 15, in cui lo studioso francese scrive: “Cassiodore y met à nu le découragement qui a saisi son âme et la résolution de retraite qui mûrit dans son esprit” (p. 363). Ma, tra quanto osserva il Lenormant e le mie riflessioni (che per Sua comodità qui di seguito Le ritrascrivo) c’è una grande differenza: “In primo luogo desidero puntualizzare che, sebbene le lettere di Cassiodoro risentano molto dell’influenza della retorica – il che indurrebbe a pensare ad una prosa artificiale, priva di sinceri stati d’animo da parte di chi scrive –, sono tuttavia innegabili nello scrittore degli scatti di amore idillico, che non sono, a mio parere, immagini offerte dalla retorica, bensì schiette effusioni di un animo nobile e profondamente sensibile. Si può in effetti asserire che in Cassiodoro retorica è soltanto la forma esterna della lettera, la cornice del quadro; ma all’interno c’è il suo sentimento puro…”. Mi risulterebbe comunque cosa apprezzabile, nonché deontologica, se Lei potesse notificarmi il numero della pagina o i numeri delle pagine dell’opera di Lenormant, in cui si nota quanto sopra detto. Ora ne sono più che mai curioso. Sa, non vorrei aver reso miei, involontariamente, stati d’animo e termini altrui! Aggiungo che, diversamente da Lei, io ho cercato di dimostrare che sincero, preciso e per nulla ironico è il quadro di Cassiodoro concernente Squillace, non a torto ritenuta “mehr als Psychotherapie” per lui (G. Ludwig, “Cassiodor. Über den Ursprung der abendländen Schule”, Frankfurt am Main 1967, p. 41). Legga con attenzione, quindi, le mie parole e seriamente provi l’infondatezza della mia tesi. Sono certo che in tal modo eviterà di giungere a conclusioni affrettate e maliziose. E allora, ancora una volta, Le chiedo di dimostrarmi che unico intento dello scrittore squillacese in “Var.” XII, 15 era quello di fare sfoggio di bravura retorica e di creare un falso quadro della sua patria. Non si discosterà così dal seminato. Se, poi, La disturba il fatto che più volte L’abbia contraddetta, ahimè, mi dispiace, ma non ci posso far nulla;
    (2) Le faccio notare che mi occupo di filologia da circa quarant’anni e che pertanto non accetto da Lei lezioni su come condurre una ricerca o quali testi consultare (sono fiero dei Maestri che mi hanno insegnato a fare ciò, anche se con umiltà riconosco, per dirla con Orazio, “Ars poet.” 359, che “… quandoque bonus dormitat Homerus”). È tuttavia divertente la Sua proposta, in base a cui avrei dovuto far richiesta, a Monaco, delle “schede preparatorie…” del ThLL. Senza dubbio l’avrei fatto, invero, se si fosse trattato di qualcosa di molto importante. Ma, considerato che tutti i dizionari da me consultati (tra cui il “Lexicon…” del Forcellini, l’ “Oxford Latin Dictionary” ed altri, in precedenza non citati) registrano gli stessi valori semantici, ossia “gonfiarsi”, “innalzarsi” (a cui il Blaise, “Dictionnaire…”, aggiunge “ourguelleusement” e il Barnish “with pride” nella sua traduzione di “Var.” XII, 15); tenuto conto, inoltre, che “turgesco”, ricorrente pure in altri passi di Cassiodoro col significato ora di “innalzarsi” (cfr. “Var”. II, 39, 2 = CCh 96, p. 84), ora di “gonfiarsi” (cfr. “Exp. Ps.” 91, 4 = PL 70, col. 657C; 106, 26 = ib., col. 773A – qui in senso traslato), è un verbo incoativo “derivé”, come “turgidus”, da “turgeo” (cfr. A. Ernout – A. Meillet, “Dictionnaire étimologique de la langue latine”, rist., Paris 1967, s.v. “turgeo”) e che innegabile è l’idea di “gonfiore” insita in esso, nel caso mi fossi rivolto alla redazione del ThLL per farmi scansionare e spedire la scheda relativa a quel verbo, quale novità pensa che avrei potuto trovarvi? Non certamente che “turgesco” può significare anche “sgonfiarsi”! È proprio in virtù di tutto ciò, quindi, che non mi è sembrato opportuno richiedere quella scheda. Che, poi, seguendo il Barnish, io abbia preferito il significato di “gonfiarsi di superbia” (ma avrei potuto seguire anche il Blaise: “innalzarsi orgogliosamente”), questo non mi obbligava a fare in tal sede un’approfondita ricerca linguistica e, pertanto, cercar di capire se prima del Nostro il verbo “turgesco” fosse stato adoperato nell’uno o nell’altro senso. Siffatte ricerche si addicono a riviste scientifiche. Mi sono invece limitato ad elencare in una nota le interpretazioni di quel verbo da parte di alcuni studiosi con riferimento esclusivo all’uso fattone da Cassiodoro in “Var”. XII, 15. Se però ritiene che, ai fini di una giusta interpretazione di “turgesco” come da lui impiegato, sia importante far richiesta a Monaco della scheda concernente tale verbo, allora, per piacere, lo faccia Lei (sempre che ne abbia voglia) e mi informi se esso non significa in Cassiodoro né “gonfiarsi”, né “inorgoglirsi”, né “innalzarsi”, ma ha un significato che altera il senso di quel passo delle “Variae” in cui si legge che Squillace “in modum botryonis pendet in collibus, non quod difficili ascensione turgescat…”;
    (3) circa la lettura di Columella, mi tocca dirLe, forse con Suo rammarico, che ne conosco bene l’opera. Ma dato che Lei mi ha chiesto se ho “mai provato a leggere” quello scrittore, per “par condicio” Le chiedo se ha mai letto Varrone, “De re rustica” III, 17. Qualora, comunque, non l’avesse fatto, in tal caso si dia da fare. Approfondirà le Sue conoscenze su pesci e vivai, “con buona pace” – perché no – di Pierre Courcelle, del quale, per quanto riguarda i “claustra Neptunia” menzionati dall’ex ministro di Teodorico, considero ancora utili gli articoli, certamente a Lei noti, “Le site du monastère de Cassiodore”, in MEFR 55 (1938), pp. 259-307, e “Nouvelles recherches sur le monastère de Cassiodore”, in “Actes du Ve Congrès international d’archéologie chrétienne”, Aix-en-Provence 13-19 sept. 1954, Città del Vaticano-Paris 1957, pp. 511-528. Non reputo tuttavia trascurabili né i rilievi da me in precedenza fatti ad uno dei Suoi commenti, né il citato studio della Farioli.
    La saluto
    Lorenzo Viscido

    • Gentile Viscido,

      saro’ ben lieta di rispondere punto per punto al suo commento del 6 marzo u.s., ma devo chiederLe la pazienza di attendere fino al 21 marzo, perche’ sono alle prese con l’International Medieval Bibliography, per la quale lavoro – a proposito, e’ stato mai segnalato alla stessa ‘Vivarium Scyllacense”? -e poi devo preparare un intervento il 20 marzo ad un incontro organizzato dalla Regione Veneto, dove parlero’ di Dina Belanger, ma anche di ‘Vivarium in Context’ con un saggio di Sam Barnish sul contesto internazionale delle Variae di Cassiodoro; e poi c’e’ come al solito l’insegnamento.

      Quindi rimando la mia risposta al 21 marzo. e nel frattempo le invio cordiali saluti.

      Luciana Cuppo

    • Chiarissimo professor Viscido,

      in ritardo di un giorno, ma Le rispondo. I Suoi interventi rivelano una certa carenza di comprensione di concetti fondamentali. Ed allora spieghiamoli.

      (1) “Sentimenti” si riferisce al modo di vedere, alle idee, convinzioni, opinioni di una persona. nel Suo post del 4 marzo alle 3:16 Lei scrive: “Il sito di queste “cavernae” o “speluncae”, quindi, va identificato in quello compreso tra gli scogli di Copanello, in gran parte nell’area sottostante i ruderi della chiesetta di San Martino.” Lenormant aveva scritto (vol. 2 p. 365, e scusate la mancanza di accenti): “Les vastes exacavations, creusees de main d’homme dans le roc, dont Cassiodore avait fait ses viviers d’eau de mer, subsistent toujours au pied du promontoire de Stalletti’, le mont Moscius de la lettre, tout aupres des ruines que quelques-uns ont regarde comme celles de Scylacium.On les appelle Grotte di San-Gregorio ou di Staletti.” [continua]

      • Seconda puntata:

        A p. 366 Lenormant aggiunge, elo ripete a p. 367, che il Vivariense “avait ete construit tout a cote’, bien evidemment sur l’emplacement de la villa des Aurelii”; pero’ a p. 439 afferma che la Coscia di Staletti’, e precisamente quella sua parte che apparteneva alla famiglia Pepe (“son domaine patrimoniale”) era “l’emplacement de l’antique Monasterium Vivariense de Cassiodore.” Evidentemente la topografia di lenormant e’ approssimativa, ma riguardo all’ubicazione dei vivai voi avete gli stessi sentimenti.

        (2) Quanto a Varrone, de re rustica 3.17, certo l’ho letto, ma bisogna anche capirlo. Nel capitolo 17, che e’ la conclusione del libro, sotto forma di dialogo – il classico mezzo letterario per esprimere idee filosofiche o morali – Varrone adduce Lucullo, che a Napoli traforo’la roccia per immetter l’acqua marina nei suoi vivai, come esempio di spreco insensato; Lucullo era uno di quelli, dice Varrone,che invece di trar profitto dai pesci spendono e spandono per pesci e vivai. Cioe’, Varrone usa Lucullo ed i suoi vivai come esempio di NON fare le cose. Ma per Cassiodoro i vivai sono esattamente l’opposto: essi sono fonte di cibo e di svago. E sarebbe interessante studiare se Cassiodoro, lungi dal prender Lucullo ad esempio, non avesse voluto contrapporre le sue idee (cristiane) sull’uso saggio ed utile alla comunita’ di pesci e vivai alle stravaganze di Lucullo. (continua)

        • (3) Per quanto riguarda i due articoli di Courcelle da lei citati (post del 6 marzo alle 13:10), ne parlai nel 1994 al Congresso Internazionale di Archeologia Cristiana. La relazione fu poi pubblicata e se ben ricordo, esimio Professore, Lei me ne richiese una copia, che io Le inviai a New York; ma se non l’avesse a mano, poco male, perche’ la pubblichero’ a breve sull’internet; vedra’ che mi sono occupata di Pierre Courcelle.
          Quanto ai tre codici con immagini del Vivariense, eccoli qua:
          http://www.centreleonardboyle.com/ciac2.html
          Particolarmente utile la dicitura “Apellena” (cioe’ l’Alessi od un suo affluente). perche’ se la chiesa del monastero era vicino all’Alessi e questo era vicino ai vivai, anche i vivai erano vicini all’Alessi, che – per chi non lo sapesse – dalla costa sotto la chiesetta di San Martino neppur si vede. (continua)

          • (4) Infine, riguardo al Thesaurus Linguae Latinae: in genere non lo si consulta per trovare il significato di una parola (qualsiasi dizionario serve a questo scopo), ma per vedere il contesto in cui un dato vocabolo fu usato e quali autori lo usarono. Si possono cosi’ rilevare le ascendenze letterarie di vari autori. Nel caso di Cassiodoro,cio’ potrebbe essere interessante per Variae 12.15, perche’ alcune ascendenze da Quintiliano furono gia’ rilevate da MacDonough, che apri’ in questo modo alcune linee d’indagine per chi volesse seguirle. Cio’ non ha nulla a che vedere con l’ipse dixit. Ma si tratta di una sfera concettuale che a giudicare dai Suoi post, esimio Professore, le e’ rimasta completamente estranea.

          • Circa il sito dei vivai cassiodorei, da identificare, secondo me ed altri, nell’area degli scogli di Copanello, pur rispettando la Sua tesi, reputo importantissime ed irrefutabili (perché inequivocabili) le testimonianze dirette di Cassiodoro: 1) “Var.” XII, 15, 4 (CCh 96, p.482): “… fecimus claustra Neptunia: ad pedem siquidem Moscii montis saxorum visceribus excavatis fluenta Nerei gurgitis decenter immisimus…”; 2) “Inst.” I, 29, 1 (ed. R.A.B. Mynors, Oxford 1937, p. 73): “fecimus enim illic… grata receptacula, ubi sub claustro fideli vagetur piscium multitudo, ita consentaneum montium speluncis ut nullatenus se sentiat captum, cui libertas est et escas sumere et per solitas se cavernas abscondere”. Si vuol tener conto di tali testimonianze o no? Forse che non erano stati scavati “ad pedem… Moscii montis” i “saxorum viscera”? E il “pes” del monte Moscio con “saxa” dov’era?

          • Colendissimo professor Viscido,

            no, le polemiche non mi piacciono, sopratutto perche’ ho altro da fare. Ho cercato di farglieLo capire postecipando la mia risposta al 21 marzo, ma Lei proprio non capisce, ed allora bisogna dirlo chiaro e tondo: battibeccarmi con Lei non e’ una delle mie priorita’ esistenziali. Quello che avevo da dire sui luoghi cassiodorei e’ pubblicato da tempo; lo legga (il MIUR ha il mio cv e pubblicazioni, e poi c’e’ sempre Google) e poi ne riparleremo.

            Per pura educazione, tuttavia, rispondo alle Sue domande specifiche, e sara’ il mio ultimo intervento, con ringraziamenti al dott. Taverniti per la sua pazienza sovrumana ed ineccepibile obiettivita’. Vediamo dunque: io addussi ad esempio del comune sentire fra Lei e Lenormant l’ubicazione dei vivai di Cassiodoro, punto sul quale voi concordate. Il Lenormant li poneva presso le Grotte di San Gregorio, cioe’ dove prima di lui li aveva messi il Marincola; e metterli li’ serviva a depistare eventuali visitatori dalla Coscia di Staletti’, allora, ed in parte anche oggi, di proprieta’ dei marchesi Lucifero; i quali storicamente non gradivano intrusioni di estranei nelle loro terre e non ammisero mai che il Vivariense potesse essere alla Coscia di Staletti’ (istruttive al proposito le note del marchese Armando Lucifero all’edizione da lui curata di ‘La Grande Grece’ di Lenormant in traduzione italiana, nel 1976).

            Ma Lei vuole che io le indichi il comune sentire fra Lei e Lenormant in relazione a quanto Lei pubblico’ nel 1987 a p. 25. In quello scritto (Suo post del 4 marzo alle 18:10) Lei contrappone la retorica usata da Cassiodoro al sentimento di Cassiodoro stesso. Anche in Lenormant (ed e’ questo un punto in comune fra voi due) c’e’ contrapposizione fra retorica ed un altro elemento; non il sentimento ma la precisione. Ecco il testo, vol. 2 p. 361:
            “[Ils] se sont imagines que la description y [cioe’ in Var. 12.15] etait purement rhétorique. En la lisant sur les lieux, on constate, au contraire, qu’elle est singulièrement précise, tellement precise qu’elle constitue un document topographique du plus haut prix”.
            Sia in Lei che in Lenormant si nota la totale incapacita’ di comprendere che per Cassiodoro ed i suoi contemporanei – anzi, per qualsiasi letterato fino all’epoca del Romanticismo – NON c’era contrapposizione fra la retorica ed altri elementi, sentimento o precisione che fossero. Fina al Romanticismo, e certamente per Cassiodoro, la retorica era uno strumento da usarsi per qualsiasi scopo si volesse; non quindi in opposizione, ma al servizio di sentimenti od idee. Che la retorica sia in contrasto con questi e’ un pregiudizio che data dall’eta’ romantica; ma c’e’ chi non se n’e’ ancora liberato (continua)

          • Chiarissimo professor Viscido,

            Lei vuole sapere dov’e’ il “pes montis [pie’ del monte] con i sax a [rocce]” (il monte e’ quello di Staletti’). Oh bella, il pie’ del monte e’ dov’e’ sempre stato: al punto dove la parete rocciosa si congiunge con la zona pianeggiante, ovvero alla base del monte. Prendendo come punto di riferimento la stazione ferroviaria di Squillace Lido, il monte e’ a sinistra di chi volta le spalle al mare, e non ve ne sono altri. Qualsiasi scolaretto di Squillace Lido, vispo e bello come sono quei figlioli, potra’ indicarglielo col ditino. Dall’altra parte del monte, cioe’ dopo il tunnel di Copanello in direzione Reggio, il pie’ del monte non c’e’ perche’ non c’e’ un versante, ma diverse pendici frastagliate che scendono gradatamente fino a formare il promontorio di Staletti’.
            I “saxa” sono la roccia (anche tufacea, Saxa rubra e’ roccia tufacea) di cui e’ fatta la parete.
            Ma Lei mi fa troppo onore scrivendo “la Sua tesi”. La tesi non e’ affatto mia. Alla mia prima visita in Calabria, negli anni ’90, vidi sul piazzale antistante l’odierno ristorante ‘Le Terrazze’ una grande targa in bronzo che ricostruiva la topografia dei luoghi cassiodorei. I vivai erano segnati ipoteticamente lungo la costa, dall’altezza del tunnel di Copanello fino alla foce dell’Alessi. Poi quella targa spari’. Ma amo ricordarla, perche’ mi rammenta che c’e’ un’ALTRA CALABRIA oltre a quella del servilismo, della boria e della saccenteria.
            Ci sono pero’ molti – e tutti da Lei studiosamente ignorati – che NON hanno collocato i vivai nella zona caldeggiata da Marincola, Lenormant, Courcelle et al. ed ora anche Lei. Almeno il professor Rhodio andrebbe ricordato, non Le pare? e poi Arslan, Castelfranchi Falla, Codispoti, Iacopi, Ulrich Kahrstedt, tanto per citarne alcuni.

            Un’ultima osservazione riguardo all’attrazione modale: che essa sia un “fenomeno meccanico”, come Lei scrive, l’aveva gia’ detto il Tantucci nella sua “Sintassi latina’; nella mia vecchia e cara edizione del liceo si trova a pagina 375. Ma Lei non cita il Tantucci. Peccato, perche’ se l’avesse fatto, avrebbe visto che la “cosiddetta attrazione modale” (Tantucci p. 374) puo’ avvenire fra due proposizioni strettamente collegate, siano esse principali o secondarie. Ed adesso dica pure quello che vuole.

          • Professoressa Cuppo,
            ha ragione nell’affermare che “battibeccar(si)” con me non è una delle Sue “priorità esistenziali”. Ha infatti ben altro a cui pensare, innanzitutto a rinvigorire la memoria, visto che i Suoi continui stati di amnesia cominciano a costituire un serio caso patologico. L’ultimo stato di amnesia? Circa l’attrazione modale, Le avevo citato pure la sintassi latina di Vittorio Tantucci (i lettori potranno constatarlo). Lei, invece, mi rinfaccia di non averla citata. Ma si rende conto che c’è qualcosa che non Le funziona bene? E non solo! Mi sarei aspettato che umilmente Lei riconoscesse il gravissimo errore commesso quando dichiarava che il congiuntivo “turgescat” “potrebbe essere un semplice caso di attrazione modale” (un errore che ha fatto ridere docenti liceali ed universitari da me resi edotti di questa Sua corbelleria che, spudoratamente, non vuole ancora considerar tale). Al contrario, mi risponde che, in base a quanto si legge nel testo di Tantucci, quel costrutto “può avvenire fra due proposizioni strettamente collegate, siano esse principali o secondarie”. Si spieghi meglio! Non sia evasiva! Lo sa Lei o non lo sa che cos’è l’attrazione modale? Può farmene un esempio? O, a causa della Sua amnesia, se n’è dimenticata? E allora Le trascrivo quel che, a proposito dello stilema in questione, vien riportato da Vittorio Tantucci nella sua sintassi latina: “una proposizione, che per sua natura dovrebbe avere l’indicativo (come le relative, le temporali, ecc.), qualora dipenda da un’altra al congiuntivo o all’infinito (ripeto: “qualora dipenda da un’altra al congiuntivo o all’infinito”), assumerebbe anch’essa, per una specie di attrazione, il modo congiuntivo, purché faccia parte integrante della proposizione che la regge e non possa quindi essere soppressa senza che il senso risulti incompleto” (p. 390 dell’edizione del 1979). Seguono esempi ed una nota in cui il Tantucci rileva che parlare di attrazione modale “è inesatto, in quanto rispecchia un fenomeno puramente meccanico” (p. 391) (ciò che Le ho detto anch’io, citando quell’autore e altri). A questo punto, rinfrescataLe la memoria, Le richiedo dove vede Lei l’attrazione modale in Cassiod., “Var.”, XII, 15, 1-2: “Civitas… in modum botryonis pendet in collibus, non quod difficili ascensione turgescat…”. Il verbo della subordinata “quod difficili ascensione turgescat” (una causale) avrebbe secondo Lei “assunto”, per una specie di attrazione, il modo congiuntivo assimilandolo da quello della reggente? E quale congiuntivo ci sarebbe in quest’ultima proposizione? “Pendet”? Ma tale verbo è un presente indicativo! Perché, allora, professoressa nient’affatto “colenda”, persevera nel fare figuracce? Forse che Le piace collezionarle? O per sfuggire alle Sue mostruosità si arrampica sugli specchi, pur essendo consapevole di cadere e trovarsi in un “cul de sac”? Curi la propria immagine! Mi ascolti!
            Circa il Lenormant, non sono io a non capirLa, ma è Lei che non comprende me o fa finta di non capirmi per evitare un’ulteriore figuraccia. Che cosa, dunque, dovrei ancora dirLe? RipeterLe quanto più volte fattoLe chiaramente notare e da Lei, ahimè, realmente o simulatamente non compreso? No, non vale la pena, anche perché, volendo usare parole di San Girolamo (“Ep.” 27, 1), sarebbe come far “canere” la “lyra” a un “asinus”.
            Riguardo al “pes” del monte Moscio, La ringrazio per avermi innanzitutto precisato che “il monte è quello di Stalettì”. Beata Lei che, diversamente da me, conosce benissimo l’area in cui esso sorge! Quanto La invidio se penso che, essendo nato nel Veneto e mai andato in Calabria, non ho avuto la possibilità di ammirare l’imponenza di quel “mons” e rendermi conto di dove termini il suo “pes”, che, come Lei mi ha spiegato, è “al punto dove la parete rocciosa si congiunge con la zona pianeggiante, ovvero alla base del monte”! Grazie, inoltre, per avermi anche spiegato che i “saxa” “sono la roccia… di cui è fatta la parete” di tale monte. Le chiedo però: se i “saxa” “sono questi, a quale roccia si riferiva Cassiodoro quando in “Var.” XII, 15, 4 scriveva che, “ad pedem… Moscii montis saxorum visceribus excavatis”, vi aveva “immesso” acqua di mare (“fluenta Nerei gurgitis”)? Io non ho dubbi che si tratti dei “saxa” della scogliera di Copanello, scavati per ricavarne dei vivai. Se così non fosse, a quali altri “saxa” poteva riferirsi il Nostro, dato che in prossimità della foce dell’Alessi non ne esistono? Sono cose che Le ho già detto in una delle mie precedenti risposte. Aggiungo che, se Cassiodoro, preciso nelle sue descrizioni, avesse voluto far riferimento alla spiaggia, l’avrebbe specificato come nel caso della fonte Aretusa: “Est… sub pede collium supra maris harenam fertilis campus, ubi fons vastus egrediens cannis cingentibus in coronae speciem riparum suarum ora contexit…” (“Var.” VIII, 32, 1). Mi fermo qui. Ritrattando, però, la mia ironica asserzione di essere nato nel Veneto e dichiarando con orgoglio di essere un calabrese doc (di Squillace), un calabrese abituato a bacchettare saccenti, frottoloni, boriosi e caparbi, Le consiglio di riflettere attentamente su quel che afferma, perché l’area di Copanello la conosco anch’io. Si rilassi, quindi; mediti! Potrà così riacquistare serenità mentale, comprendendo che non c’è bisogno che “un qualsiasi scolaretto di Squillace Lido, vispo e bello”, mi “indic(hi) col ditino” il monte Moscio. Potrà anche fugare dalla mente qualche ombra di malizia, visto che, a Suo dire, io avrei a bella posta “ignorato” molti studiosi che hanno sostenuto la Sua medesima tesi e dei quali alcuni, tuttavia, contrariamente a ciò che Lei ha scritto, non hanno mai localizzato i vivai cassiodorei sulla spiaggia, vicino alla foce dell’Alessi. Ad ogni modo Le rivolgo un ulteriore ringraziamento per avermi annoverato fra coloro che collocano quei vivai nell’area della succitata scogliera. Sono pertanto lieto che Lei abbia ricordato Pierre Courcelle “et alii”, tra cui vale la pena di citare Raffaella Farioli (“La trichora di S. Martino e il monastero Vivariense sive Castellense di Cassiodoro”, in AA.VV., “Aparchai. Nuove ricerche e studi sulla Magna Grecia e la Sicilia antica in onore di Paolo Enrico Arias”, II, Pisa 1982, pp. 669-670), Ghislaine Noyé e François Bougard (“Squillace, prov. de Catanzaro”, in MEFRM [Chronique] 98, 2 [1986], p. 1195). Come vede, sto in buona compagnia. Lei, invece, con chi preferirebbe stare? Se mi permette, L’affido a un tedesco, Ulrich Kahrstedt (“Kloster und Gebeine des Cassiodorus”, in “Mitteilungen des deutschen archäologischen Institut. Römische Abteilung” 66 [1959], pp. 204-208), il quale, ribadendo quanto aveva osservato Henry Swinburne (“Travels in the two Sicilies”, I, London 1783 [1787 erroneamente in Kahrstedt] , pp. 334 s.) e fantasticando come lui, considerava non errata l’ubicazione dei “claustra Neptunia” nelle vicinanze della foce del fiume (“H. Swinburne hatte durchaus nicht unrecht, wenn er die Weiher an der Fluẞmündung suchte” (p. 204). Contenta?
            Un’ultima cosa: Lei ha ringraziato il sig. Taverniti “per la sua pazienza sovrumana ed ineccepibile obiettività”. Desidero comunque informarLa che a gestire il sito web in cui abbiamo finora pubblicato le nostre riflessioni non è il sig. Taverniti, ma il dr. Agazio Mellace. Si aggiorni!
            Prof. Lorenzo Viscido

      • Professoressa Cuppo,
        rispondo con piacere al Suo commento del 23.3.2014.
        1) Lei scrive che i miei “interventi rivelano una certa carenza di comprensione di concetti fondamentali” e me ne spiega i motivi. Mi corre quindi l’obbligo di ringraziarLa, ma al tempo stesso di farLe notare che ad avere “una certa carenza di comprensione di concetti fondamentali” è purtroppo Lei, non sono io. E difatti ne ha dato inconfutabile prova nel commento di ieri, chiarendo quali fossero i “sentimenti” del Lenormant che io, a distanza di anni, avrei “pari pari” di nuovo espresso: i “sentimenti” relativi all’”ubicazione dei vivai” di Cassiodoro. Volendo essere precisi, però, nel Suo commento del 5 marzo Lei scriveva che sono i “sentimenti” da me “espressi nel 1977 e poi nel 1987…” (quelli, cioè, riguardanti l’impiego della retorica nelle “Variae”) che “si trovano” già “in ‘La Grande Grèce’” del citato studioso francese, ragion per cui La contraddicevo e al tempo stesso La pregavo di notificarmi i numeri delle pagine di quest’opera, dove l’autore palesava gli stati d’animo dei quali io, dopo tantissimo tempo, mi sarei appropriato. E allora, siccome Le ho già trascritto due volte quelli che Lei ha definito “sentimenti” dal Lenormant “espressi” ancor prima che io “pari pari” li esternassi nel 1977 e successivamente nel 1987, mi tocca farlo ancora una volta affinché i lettori capiscano chi di noi due ha davvero “una certa carenza di comprensione” non solo “di concetti fondamentali”, ma anche di espressioni che persino un ragazzo di scuola elementare riuscirebbe a comprendere. Ecco qui di seguito, pertanto, quel che io rilevavo nel 1977 e, in seguito, nel 1987: “In primo luogo desidero puntualizzare che, sebbene le lettere di Cassiodoro risentano molto dell’influenza della retorica – il che indurrebbe a pensare ad una prosa artificiale, priva di sinceri stati d’animo da parte di chi scrive –, sono tuttavia innegabili nello scrittore degli scatti di amore idillico, che non sono, a mio parere, immagini offerte dalla retorica, bensì schiette effusioni di un animo nobile e profondamente sensibile. Si può in effetti asserire che in Cassiodoro retorica è soltanto la forma esterna della lettera, la cornice del quadro; ma all’interno c’è il suo sentimento puro…”. Legga attentamente le mie parole, professoressa Cuppo, e consideri il contesto in cui le ho impiegate. Capirà (me lo auguro!) che io le ho usate non per condividere i medesimi “sentimenti” del Lenormant circa “l’ubicazione dei vivai” cassiodorei, ma per rispondere alla Sua ‘accusa’, stando alla quale, nell’asserire quanto ancora una volta, poco fa, Le ho trascritto, io avrei “pari pari” manifestato “sentimenti” già “espressi” dallo studioso parigino. È ovvio che, se Lei mi avesse parlato dei “sentimenti” di quest’ultimo in relazione al luogo dei summenzionati vivai, Le avrei risposto in maniera consona. Considerato, tuttavia, che Lei si riferiva inequivocabilmente alle mie osservazioni del 1977 e del 1987, Le ho risposto come di dovere. Non si allontani, quindi, dal seminato, cara professoressa; non sia arrogante (come lo è stata pure col sig. Paravati, che con garbo, però, ha saputo ammansirLa); riconosca con umiltà i Suoi errori/orrori (il gioco paronomastico è necessario) e, soprattutto, eviti figuracce! Dico “figuracce” perché non è la prima che fa. A tale riguardo, infatti, Le segnalo quanto da Lei osservato a proposito di Cassiodoro, “Var”. XII, 15, 1-2 (CCh 96, p. 481): “Civitas… in modum botryonis pendet in collibus, non quod difficili ascensione turgescat, sed ut campos virentes et caerula maris terga respiciat”. Nel Suo commento del 2 marzo Lei ha scritto che il congiuntivo “turgescat” “potrebbe essere un semplice caso di attrazione modale”. Il che mi risulta davvero strano, detto da una insegnante (o ex insegnante) di latino. Ma, a prescindere dal fatto che l’attrazione modale (= assimilazione dei modi) è, come qualcuno ha rilevato, “un’invenzione scolastica di centocinquant’anni fa”, che, secondo il giudizio di eccellenti studiosi, non è esatto chiamare così in quanto trattasi di un fenomeno puramente “meccanico”, essa, comunque, viene spiegata a scuola come un costrutto in base al quale una proposizione dipendente da un’altra al congiuntivo (ma non mancano casi in cui ricorre l’infinito o l’imperativo: è inesatto, quindi, parlare di “attrazione modale”), assume, per una specie di ‘attrazione’, il primo di quei tre modi, purché faccia parte integrante della proposizione reggente (cfr. in merito, ad es., Ch. E. Bennett, “Syntax of Early Latin”, I, Boston 1910, pp. 305-315; W. Kroll, “La sintassi scientifica nell’insegnamento del latino”. Trad. it. di F. Portalupi, Torino 1966, pp. 64-65; A. Ernout – F. Thomas, “Syntaxe Latine”, rist., Paris 1972, pp. 402-406; V. Tantucci, “Urbis et orbis lingua”, rist., Bologna 1979, pp. 390-391). Le chiedo, allora, perché “turgescat”, a Suo avviso, “potrebbe essere un semplice caso di attrazione modale”. Dove la vede Lei questa “attrazione”? Quale congiuntivo della reggente sarebbe stato assimilato? Forse che “pendet”, a Suo parere, è un congiuntivo? Non racconti bubbole, professoressa Cuppo; anzi non dica baggianate: non Le rendono onore. Le ricordo, inoltre, quel che Lei ha scritto riguardo all’espressione cassiodorea “pendet in collibus” (Suo commento del 17 febbraio), ossia che Cassiodoro ha dovuto usare il plurale “collibus” in quanto, se avesse impiegato il singolare “colle”, il “cursus” della “frase” sarebbe “risultato zoppo”. In tal modo Lei ignorava non solo che “pendet in colle” avrebbe costituito una clausola del “cursus planus” frequente nelle “Variae”, ma anche che, scrivendo “pendet in collibus”, l’autore faceva uso, in effetti, di una clausola del “cursus tardus”, uso altresì frequente in quella silloge (ved. mio commento del 26 febbraio). In seguito, nel Suo commento del 2 marzo, Lei prendeva nota della mia puntualizzazione e, ringraziandomi, mi informava che ne avrebbe fatto “tesoro”. Stia attenta, quindi, cara signora! Se poi Lei ritiene che i lettori delle Sue considerazioni pubblicate nel sito web https://www.squillace.org le prendano tutte per oro colato, allora si sbaglia di grosso;
        2) per quanto concerne il “Thesaurus Linguae Latinae”, Le ho già spiegato i motivi per cui non mi era parso opportuno far richiesta a Monaco della scheda riguardante il verbo “turgesco”. L’ho infatti informata che, non essendo questa la sede adatta per “fare un’approfondita ricerca linguistica” (perché “ricerche” di tal genere “si addicono a riviste scientifiche”), malgrado ciò, comunque, sempre al fine di dare a quel verbo, come adoperato da Cassiodoro, una plausibile interpretazione, non solo avevo consultato molti lessici, tra cui quello del Forcellini, il “Latin Dictionary” di Lewis e Short e il “Dictionnaire latin-français des auteurs chrétiens” del Blaise, ma avevo pure tenuto conto delle interpretazioni di “turgesco” in “Var.” XII, 15, 1 da parte di Odo John Zimmermann, Alexander Souter, Leslie Webber Jones e Samuel Barnish (ai quali mi ero dimenticato di aggiungere Thomas Hodgkin, “The Letters of Cassiodorus…”, London 1886, p. 504). Stando così le cose, Le comunicavo che mi era sufficiente quel che avevo appreso dalle opere sopra ricordate e che, dunque, essendo ancora inedito, peraltro, il fascicolo “T” del ThLL, non ritenevo fosse così importante rivolgermi alla sua redazione per farmi scansionare la scheda relativa a “turgesco”. Aggiungevo che negli scritti di Cassiodoro (che ho letto tutti, e pertanto ero e sono convinto delle mie asserzioni) il citato verbo ricorre complessivamente quattro volte, due nelle “Variae” e due nell’”Expositio Psalmorum”. Riepilogando, allora, visto che avevo limitato la mia ricerca solo all’uso di questo verbo nel nostro autore; poiché, relativamente ad un persuasivo significato del medesimo verbo in “Var.” XII, 15, 1, avevo trovato riscontro alla mia curiosità nelle traduzioni inglesi di Thomas Hodgkin, Leslie Webber Jones e Samuel Barnish (riscontro che risale, invero, a tanti anni fa); non essendo questa la sede adatta – ripeto – per approfondire una ricerca linguistica, non mi sembrava di particolare importanza richiedere a Monaco quella scheda. Invitavo anzi Lei a farlo, qualora ne avesse avuto voglia, sicuro, tuttavia, che, oltre a quanto da me comunicatoLe circa l’uso di “turgesco” in Cassiodoro, non vi avrebbe scoperto altro. Cosa differente sarebbe stata se io avessi deciso di pubblicare uno studio in merito a quel verbo in qualche rivista scientifica. In tal caso, senza dubbio, avrei impostato la ricerca in maniera diversa, approfondendo alcuni punti, dopo avere ovviamente richiesto alla redazione del “Thesaurus Linguae Latinae” la più volte menzionata scheda. Questo, soprattutto, con la speranza di poter sapere (dato che nei lessici da me consultati non c’è nulla che riguardi ciò che sto per dire) se prima di Cassiodoro, “Var.” XII, 15,1, il verbo “turgesco” era stato usato col significato di “inorgoglirsi” (significato che, ad es., Hodgkin, Jones, Barnish ed il sottoscritto hanno dato a tale verbo) o, come si legge nel “Dictionnaire” di Albert Blaise, col valore semantico di “se dresser orgueilleusement”. Posso però assicurarLe che fra qualche settimana farò tale studio e che poi lo invierò, per pubblicazione, ad una delle riviste alle quali solitamente collaboro.
        Mi rendo purtroppo conto che Lei non ha compreso o non ha voluto comprendere quel che in precedenza avevo cercato di farLe capire. Ora, comunque, pur essendo stato ripetitivo, Le ho rinfrescato la memoria. Lei sa, infatti, che “repetita iuvant”, a meno che, per dirla con Orazio (“Ep.” II, 1, 199-200), non si narri “asello / fabellam surdo…”;

        3) circa i vivai cassiodorei, che questi, come Lei afferma, fossero “vicini all’Alessi” non significa che si trovassero sulla spiaggia o rasentassero le sponde di quel fiume. Erano (e sono) soltanto “vicini” all’Alessi. La distanza, infatti, tra questo e gli scogli di Copanello non è lunga. Continuo a ritener valido, quindi, ciò che finora hanno sostenuto, ad es., il Courcelle, la Farioli e, per ultima (se non sbaglio), Chiara Raimondo nel suo articolo “Il territorio del Vivariense”, apparso in “Atti del progetto ‘Il Vivariense’”, a cura di A. Molea, Marina di Davoli 2008, p. 48;

        4) riguardo a Varrone (“De re rustica” III, 17), che io Le avevo consigliato di leggere esclusivamente affinché Lei approfondisse le Sue nozioni in campo di pesci e vivai, mi fa piacere che l’abbia letto. Ora son certo che ferrata è la Sua conoscenza almeno sui pesci e sulle loro vasche;

        5) quanto alle raffigurazioni del monastero Vivariense nei manoscritti di Bamberg, Kassel e Würzburg, La ringrazio, ma le conoscevo già (le ho pure pubblicate nei miei “Studi cassiodorei” [Soveria M.lli 1983]);

        6) concludo precisandoLe che, se Lei ama le polemiche, ha trovato in me l’avversario perfetto, non perché mi piace polemizzare, ma perché non tollero che alcuni sparino fandonie e si incaponiscano nel non voler comprendere cose esposte con tanta chiarezza.

        “Bene valeas”
        Prof. Lorenzo Viscido

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