LA SANITÀ NEL POST COVID Sanità territoriale e ruolo del “non profit”

Intervista al sociologo Franco Caccia a cura di Salvatore Taverniti

Gli effetti pandemici dovuti al Covid-19 hanno provocato un’emergenza sanitaria a cui è stata data una risposta immediata con una serie di misure urgenti da parte del Governo e delle Regioni. Di questo, del sistema sanitario, dell’importanza della sanità territoriale e del ruolo degli enti “non profit” discutiamo con Franco Caccia, dirigente sociologo e responsabile dell’U.O. Servizi Sociali dell’Asp di Catanzaro, con una pluriennale esperienza nel campo dell’organizzazione dei servizi socio-sanitari e delle reti di cura territoriali.  Caccia è anche giornalista ed attualmente ricopre il ruolo di assessore alla programmazione e al turismo del Comune di Squillace. È, inoltre, componente del gruppo costituente del Forum del terzo settore calabrese, autore di diverse pubblicazioni e presentazioni scientifiche: nel 2018 ha pubblicato il libro “Una buona pratica di cura della non autosufficienza”.

Secondo lei, si è agito in maniera proficua? La Regione Calabria, in particolare, ha redatto un idoneo programma operativo?

«L’esperienza Covid ha rappresentato un evento imprevisto e le cui risposte, specie nella prima fase, sono state orientate a tamponare le emergenze piuttosto che seguire una precisa progettualità. È indubbio che si siano registrate diverse carenze e ritardi. Del resto  la nostra è una regione in cui il sistema di cura è concentrato, per la quasi totalità, sui servizi sanitari, mentre la rete dei servizi socio-assistenziali, di competenza dei comuni, è quanto mai esigua e dispersiva. Le note difficoltà del sistema sanitario calabrese, tra l’altro anche alle prese con il cambio in piena pandemia del commissario ad acta, hanno senza dubbio contribuito a determinare una situazione di incertezza che ha pesato sulla capacità e tempestività decisionale dell’ente. Per tanto tempo l’attenzione è stata occupata dalla priorità di individuare dei posti letto per il trattamento dei pazienti più gravi e, nella seconda fase, la priorità è stata occupata dall’attivazione di postazione per la somministrazione dei vaccini.  Accanto a queste legittime esigenze sarebbe stato opportuno dedicare una maggiore attenzione alle persone più fragili, quali anziani non autosufficienti e/o disabili con interventi personalizzati ed erogati presso il proprio domicilio».

A suo parere, la pandemia ha avuto un impatto sulle disuguaglianze di salute a seconda dello status socioeconomico?

«Certamente la pandemia, fra le tante conseguenze, ha portato con sé anche una radicalizzazione delle differenze socio-economiche. Basti pensare a quanto avvenuto in ambito scolastico, con la sospensione delle attività didattiche in presenza e l’introduzione della Dad (didattica a distanza). Una soluzione che ha messo a dura prova intere famiglie, anche quelle più attrezzate, sotto diversi aspetti. Non vi sono dubbi che l’introduzione di lezioni veicolate dalle tecnologie abbia ingigantito le differenze, non solo tra i nuclei famigliari, ma anche tra territori. Vi sono intere zone della nostra regione con una bassa qualità dei servizi di rete che hanno reso impossibile i collegamenti informatici. È facile ipotizzare pesanti conseguenze sulla qualità dei percorsi formativi e non è casuale la nascita del neologismo di “povertà educativa”, anche con l’intento di individuare delle mirate strategie territoriali a sostegno delle realtà più esposte. A rimarcare le differenze di condizione e di opportunità non è solo il reddito disponibile dalle famiglie. Abbiamo potuto verificare, nei lunghi mesi vissuti nel chiuso delle nostre case, il ruolo strategico di beni intangibili come, ad esempio, l’informazione sui diritti esigibili e sui servizi attivabili, nonché sul “capitale sociale”.
Con questo termine i sociologi ci riferiamo alla rete di riferimento che ognuno attiva di fronte alle diverse necessità. Studi consolidati evidenziano come l’ampiezza del capitale sociale sia fortemente dipendente dal grado di istruzione dei componenti del nucleo familiare e dalla partecipazione alla vita comunitaria. Si intuiscono, quindi, le pesanti ripercussioni a cui sono esposti quanti, durante questo periodo di emergenza, hanno fatto maggiore fatica nelle attività didattiche. Dobbiamo, altresì, tenere in considerazione che la pandemia ha aggravato una situazione socioeconomica che in Calabria era già particolarmente precaria. L’aumento delle persone in condizioni di povertà assoluta, il terrore dell’indigenza, della disoccupazione prolungata, della solitudine degli anziani e dei disabili, della dispersione scolastica, sono alcune aree di bisogno su cui è urgente intervenire attraverso nuove politiche di welfare territoriale». 

E’ emersa anche l’importanza della sanità territoriale. Cosa si può fare ora per dare priorità alle reti di cura territoriali?

«Papa Francesco, in occasione della messa di Pentecoste del maggio 2020, ebbe a dire che “peggio di questa crisi c’è solo il dramma di sprecarla”. L’invito del presule deve essere colto a pieno, sia per le scelte di tipo individuale quanto comunitarie, tra cui l’adeguamento dei sistemi di cura. Per troppo tempo l’attenzione di quanti si sono occupati della salute dei cittadini, in Calabria, è stata concentrata, quasi esclusivamente, sulle strutture ospedaliere.  Tra gli addetti al settore della salute abbiamo ben presente quanto certificato da anni di analisi scientifiche internazionali, le quali sono chiare nell’attribuire alla presenza/assenza di servizi sanitari un impatto minimo sulle condizioni di salute dei cittadini (10%). Ciò che maggiormente influenza lo star bene delle persone sono i cosiddetti determinanti sociali di salute quali gli stili di vita (50%), i fattori ambientali (20%) ed i fattori genetici (20%).
Siamo di fronte ad un nuovo modo di pensare alle politiche della cura le cui parole chiave sono rappresentate da comunità, personalizzazione degli interventi, domiciliarietà, relazioni umane. Il Covid ha esaltato la centralità del territorio, finora visto e gestito come luogo da cui nascono bisogni/problemi e non già come spazio in cui sono presenti o attivabili risorse ed opportunità. Vi è, pertanto, necessità di politiche pubbliche capaci di agire per rinforzare i legami e la collaborazione all’interno delle comunità locali mettendo in campo, prima delle tecniche organizzative, la qualità dell’etica rappresentata da scelte e comportamenti ispirati alla reciprocità, alla solidarietà e alla responsabilità collettiva. In questa direzione si muove, a livello internazionale, un nuovo paradigma della cura chiamato “community care” (comunità che cura), in cui, partendo dall’assunto che la salute coinvolge l’intera vita sociale, la salute come bene comune, che non può essere appannaggio esclusivo di alcuna Istituzione, promuove un approccio comunitario in cui si interviene sui diversi aspetti che influiscono sulla salute dei cittadini: un lavoro adeguato e sicuro, un’abitazione dignitosa, l’accesso alla formazione e alla cultura, un ambiente sano, strumenti e opportunità di relazione e di inclusione sociale. Si intuisce, quindi, che se dovessimo pensare di circoscrivere, con il termine cure territoriali, il potenziamento di qualche servizio domiciliare, senza agire sulla dimensione etica-formativa ed organizzativa dei sistemi di cura, rischiamo di fare poca strada e, cosa ancor più grave, di sprecare l’ennesima opportunità».

E’ giusto attrezzare un sistema sanitario capace di fronteggiare le emergenze, più resiliente e più equo?

«Per i concetti finora espressi, preferisco ragionare sui sistemi per la salute, di cui i servizi sanitari sono parte integrante, ma non esclusiva. L’approccio clinico medico-paziente fortemente centrato sull’eliminazione dei sintomi, magari con l’uso progressivo di farmaci, per molte delle patologie diffuse tra la popolazione, non è più sufficiente. Si pensi ai bisogni espressi dalla fascia di popolazione in continua crescita costituita dalle persone anziane. Si tratta di persone su cui è necessario intervenire per rispondere a bisogni complessi quali la solitudine, la non autosufficienza, la cronicità e comorbilità delle malattie. Più dell’uso di farmaci, comunque importanti, in questi casi ciò che contribuisce a far stare meglio queste persone sono le relazioni umane.
E’ necessario, quindi, dare spazio ad un approccio bio-psico-sociale per attrezzare i sistemi di cura con servizi disponibili sul territorio capaci di “prendersi cura” delle persone nelle loro case. Spesso si utilizza il termine centralità della persona per descrivere dei progetti di salute, salvo poi verificare che si tratta di sradicare le persone anziane dal loro ambiente di vita, dalle loro relazioni, privarli della loro identità.I servizi per la salute devono essere ripensati a partire da questa priorità. Nel nuovo welfare la salute delle persone non si può limitare ad agire solo sulla singola persona portatrice di un bisogno. Gli interventi per la salute devono infatti interessare anche le famiglie e la comunità e devono saper valorizzare le conoscenze e l’esperienza di tutti e di ciascuno.
Dobbiamo avere i giusti occhiali per guardare alle priorità della salute. Un evento come il Covid ha diffuso tante paure e le svariate restrizioni a cui siamo stati tutti costretti, hanno inevitabilmente interessato una dimensione fondamentale del vissuto di ogni persona, sebbene non visibile: le emozioni. Le chiusure prolungate delle scuole, delle attività produttive, il regime di isolamento sociale a cui siamo stati vincolati per tanto tempo, le difficoltà aggiuntive arrecate alle persone anziane/disabili ed ai nuclei familiari fragili, sono solo alcune manifestazioni di un disagio diffuso in ogni comunità e che impongono interventi immediati quanto qualificati.  Se ci avviamo per una nuova estate carica di speranze, dobbiamo pensare a politiche capaci di farsi carico di un bisogno diffuso: rigenerare le emozioni delle persone.
E’ necessario fare presto e bene in modo da evitare che i danni, molti dei quali invisibili, subìti in questi mesi dalle persone, non abbiano conseguenze irreparabili. Vivere emozioni positive comporta una lunga serie di benefici sia per lo stato di salute della singola persona quanto per il suo agire all’interno dei diversi contesti: scuola, lavoro, famiglia, comunità. Ogni territorio, a cominciare dai piccoli comuni distribuiti nelle nostre realtà locali, farebbero bene ad attrezzarsi per dare risposte a questa priorità di intervento.
La catena di spontanea solidarietà umana, generata in ogni comunità fin dalla prima fase dell’emergenza sanitaria, ha costituito un vero punto di forza contro il Covid. Ebbene questa disponibilità dei cittadini può essere un primo tassello da valorizzare ed utilizzare per la ri-costruzione di emozioni ed atteggiamenti relazionali fondamentali per il corretto vivere delle persone.Ogni Comune potrebbe avviare una concreta sperimentazione con un suo piano di interventi territoriali. La regola da seguire è semplice ed è per tutti fattibile: usare bene ciò che è già disponibile. Significa avviare un lavoro capace di mettere in rete il patrimonio di conoscenze e risorse di cui dispongono quanti sono presenti nei singoli territori. Sono direttamente coinvolte sia le istituzioni: Comuni, aziende sanitarie, scuole, ma anche la Chiesa, le associazioni di volontariato, sport e cultura, nonché le famiglie ed i pensionati». 
Quale, a suo parere, può essere il ruolo degli enti non-profit operanti in Calabria? «Abbiamo sottolineato, in più parti, la centralità dei valori, dell’etica e della coerenza delle testimonianze, quali risorse preziose non solo per la costruzione dei nuovi sistemi di welfare ma, oggi più che mai, fondamentali per la ri-costruzione di un paese fiaccato da una guerra mondiale chiamata pandemia. Gli enti non profit nascono con una precisa mission che è quella di promuovere e diffondere la solidarietà nei luoghi in cui operano. Il collante delle comunità è proprio rappresentato da un’identità territoriale che porta gli abitanti a riconoscersi come persone legate da un medesimo destino ed in cui tutti sentono il dovere di contribuire a migliorare le condizioni di vita, proprie e, soprattutto, quelle delle nuove generazioni. 
La solidarietà, non quella enunciata ma quella vissuta ed agita, rappresenta la spinta a vedere il benessere altrui come un impegno irrinunciabile. Solidarietà deriva dal termine latino “solidum”, che significa solido, duro, coeso. Per questo la solidarietà è un bene che rende unita e forte la comunità di appartenenza nella misura in cui ogni componente della società risponde alla chiamata di favorire momenti di collaborazione e condivisione di scelte e comportamenti. Attribuisco, quindi, al mondo del terzo settore e del non profit un ruolo irrinunciabile per la ripresa della nostra regione.
Per molti anni abbiamo avuto in Calabria delle esperienze fortemente innovative, soprattutto in particolari aree di bisogno in cui era più avvertita l’esigenza di una nuova visione e di un nuovo approccio: malati psichiatrici e persone disabili. Con il tempo l’apporto profetico di questo mondo si è andato sempre più affievolendo, forse anche per un ruolo crescente occupato da questi enti nella gestione dei servizi. Il nuovo piano sociale regionale, approvato nel mese dicembre 2020, ha documentato che ben il 97% dei servizi socio-assistenziali presenti in Calabria sono gestiti da enti privati, tra cui la stragrande maggioranza è costituita da enti non profit di ispirazione cattolica.
L’evoluzione e l’innovazione dei sistemi di cura ha bisogno di vincere sfide del futuro, di mettere in campo proposte e servizi che superino la ripetitività di standard che appiattiscono prestazioni e, soprattutto, inaridiscono pensieri e devitalizzano impegni. L’esperienza e l’etica del non profit deve poter tornare ad essere una risorsa identitaria a cui attingere per una Calabria che, anche in questo settore della cura e dell’inclusione sociale, può diventare un’eccellenza nazionale». 
a cura di Salvatore Taverniti

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