I moti del 1820, i nove mesi che diedero vita al Risorgimento

Duecento anni fa Salerno e la sua provincia (Principato Citra) assunsero un ruolo centrale nei moti che collocavano le libertà costituzionali tra i diritti inviolabili dei popoli. L’assolutismo monarchico, riportato in auge dalla restaurazione voluta da Metternich e da Austria, Prussia e Russia, subì i primi colpi. Altri ce ne saranno e, sempre, vedranno l’impegno, in primo piano, delle popolazioni salernitane.
Ora possiamo alzare il sipario sul breve ma glorioso evento del 1820-21. Congiure, repressioni, giochi politici, sussulti contadini per le terre demaniali, battaglie tra eserciti, tradimenti, arresti ed entrate sulla scena di coraggiosi uomini di stampo salernitano si susseguirono a ritmo serrato, convulso, con ribaltamenti e colpi di scena che fecero traballare la dinastia borbonica e misero in luce le contraddizioni e le pecche di un monarca a suo modo bonaccione e connesso al popolo dei vicoli e alla sua filosofia spicciola sintetizzata nelle famose tre F. Un re superstizioso, abbarbicato al Vaticano, a tratti generoso, certamente bislacco e folkloristico. Ferdinando I fu, però, implacabile fino alla crudeltà nella repressione.
Fu due volte spergiuro e accettò di essere un osservato speciale delle grandi potenze straniere che, a turno, cercarono di mantenere il suo regno nella sfera delle proprie influenze.

IL MOTO DEL 1820. Il moto di cui ci occupiamo scoppiò a Nola il 2 luglio 1820 e sembrò un golpe militare passeggero, ma lo squadrone di sottufficiali e di soldati trascinati all’ammutinamento dai due giovani sottotenenti di cavalleria Michele Morelli e Giuseppe Salvati, entrambi impiccati a Napoli il 12 settembre 1822, in realtà ubbidì alle direttive emanate dalla Gran Dieta della carboneria svoltasi a Salerno, con la regia di Rosario Macchiaroli, uno dei più combattivi capi dell’ala rigorista che si contrapponeva a quella moderata dei D’Avossa. Maccharoli proveniva da Bellosguardo, il piccolo borgo cilentano da dove il grintoso sacerdote Matteo Farri era partito per la lontana Valencia in rivolta contro Ferdinando VII, monarca dispotico odiato dagli indipendentisti.
Dopo il decennio, la carboneria salernitana aveva sostituito quella napoletana decimata e scompaginata dagli arresti, e, finalmente, nella scia della rivolta spagnola, aveva deciso di rompere gli indugi e costringere il Borbone a concedere la stessa costituzione conquistata dai rivoltosi iberici. A Salerno c’erano state due precise avvisaglie il 30 maggio e il 17 giugno, che la polizia borbonica aveva stroncato, costringendo lo stesso Macchiaroli e gli altri capi, a eclissarsi.
Da qui la necessità di riunire tutto il mondo dei carbonari e l’appello all’unità e a un’azione congiunta lanciato proprio da Rosario Macchiaroli, ormai punto di riferimento di congiurati e nemici della corona, compresi gli stuoli di contadini e braccianti con i quali aveva rivendicato, a Vallo della Lucania, l’assegnazione delle terre del demanio.


La Gran Dieta di Salerno più che un’ adunata e una conta fu una vera mobilitazione sul da farsi delle “vendite” e delle “baracche” del Principato Citra, del Principato Ultra e di quelle ancora in vita a Napoli, cui si aggiunsero i carbonari di Castellammare di Stabia, di Sorrento, Basilicata e di Capitanata. Vennero, così, alla ribalta cospiratori decisi a tutto come il canonico Antonio De Luca di Celle di Bulgheria, già sceso in campo assieme al fratello nel 1799 e che capeggerà la rivolta del 1828; Antonio Galotti, avventuriero di Ascoli Satriano residente a Massicelle; i nobili fratelli D’Avossa e Luigi Vernieri, di Salerno; Gherardo Mazziotti con i fratelli Nicola e Giuseppe e il cugino Gianbattista, di Celso; il magistrato molisano Giuseppe Nicola Rossi; Pietro Sessa e Nicola Lombardi della turbolenta Fisciano; Michelangelo Mainenti di Vallo della Lucania; Antonio Cicalese e Giuseppe Viesti di Nocera; i napoletani Antonio Giannone e Gaetano Pascale; i valorosi fratelli Guglelmini di Perdifumo; il barone Perrotti di Castellabate; Gaetano Bellelli, grande condottiero, di Capaccio; Matteo Bufano di Montecorvino; Francesco Maselli e Giuseppe Caterina di Omignano; Michele e Giovanni Pessolani e Girolamo De Petrinis di Sala Consilina e altri provenienti dalle zone del Tanagro, da Campagna, Eboli, Amalfi, Vietri, Cava, Mercato San Severino.
Con carbonari si schierarono anche gli alunni del Regio Convitto di Salerno, i quali seguirono l’esempio di Cesare Malpica, gli allievi del seminario arcivescovile e perfino i membri della Reale Società Economica.
Fu vagheggiata una Repubblica Lucana Occidentale sostenuta da un giornale con tale testata stampato nell’unica tipografia di Salerno di proprietà di Francesco Pastore, capo carbonaro di Vietri, arrestato il 1 agosto 1821 e mandato davanti alla Corte Criminale per «istigazione a mezzo della stampa e lesa maestà».

L’APPARATO POLITICO. Per iniziativa del Macchiaroli si formò un apparato politicamente strutturato e organizzato con diverse commissioni, con una Magistratura Esecutiva e con un Comitato di Salute Pubblica. Gaetano Pascale, Giuseppe Bongiovanni e Domenico Cicalese furono incaricati di sensibilizzare rispettivamente le popolazioni di Cosenza, di Potenza e di Napoli in vista di una generale sollevazione contro il Borbone e fu deciso di affidare al valoroso generale Guglielmo Pepe il comando dell’esercito rivoluzionario. Fu Pietro Sessa, medico fiscianese e capo della vendita “I Normanni”, a comunicarglielo ad Avellino.

IL MOTO DI NOLA. Quindi, il moto di Nola fu una conseguenza di questo grande lavorio e non sorprese quando, assieme ai militari ammutinati, si incolonnarono i carbonari guidati dall’abate Luigi Menichini. Ferdinando, ovviamente, fece muovere i suoi generali di fiducia, Nunziante e Campana, i quali schierarono le loro truppe tra Monteforte Irpino e Nocera intenzionati a fermare la marcia dei rivoltosi provenienti da Avellino. Ma i salernitani della provincia si erano già mobilitati e occupato il capoluogo tra il silenzio dei borbonici nelle caserme e il giubilo degli abitanti.
L’obiettivo della carboneria non era quello di destituire Ferdinando I, bensì di costringerlo a concedere la costituzione spagnola del 1812, le libertà di stampa e di culto e di eleggere una rappresentanza democratica in parlamento.
Fu Nunziante a comprendere per primo che il fiume in piena non poteva essere fermato e a scrivere al re, il 4 luglio, di accedere alle richieste dei carbonari nonostante il veto della Santa Alleanza.

L’EMANAZIONE DELLA COSTITUZIONE. Nella notte tra il 6 e il 7 luglio Ferdinando emanò la Costituzione e nella stessa giornata Gaetano Bellelli, colui che aveva catturato Fra Diavolo e ora era a capo delle milizie del Principato Citra, ordinò ai comandanti dei quattro distretti salernitani di riunire i loro battaglioni e marciare sul capoluogo con la bandiera costituzionale bene in vista.
Nello stesso tempo la Gran Dieta, in riunione plenaria, decise di formare il Governo provvisorio del Principato mentre il generale Colletta portò da Napoli copia del decreto reale della Costituzione promessa da Ferdinando. Questi la giurò sul Vangelo e bissò il giuramento in forma solenne davanti al parlamento, ai ministri, ai dignitari di corte e alle autorità religiose.

LE ELEZIONI. Le elezioni furono indette il 22 luglio e per il Principato Citra (418.846mila abitanti) furono eletti deputati Rosario Macchiaroli, Gherardo Mazziotti, Saverio Angelo Pessolani, Antonio Maria De Luca, Benedetto Rondinelli e Gerardo Caracciolo, supplenti Matteo Galdi e Domenico Furiati. Gli eletti si trovarono subito in un ginepraio.
La Santa Alleanza (con Inghilterra e Francia defilate da Austria, Russia e Prussia), riunita a congresso a Troppau in ottobre, mise Ferdinando all’angolo, costringendolo a ritirare la Costituzione giurata due volte.
Il re, che il 7 dicembre partì per Lubiana promettendo al suo parlamento che avrebbe difeso quanto concesso, al contrario fece ammenda della sua “debolezza”, come avevano temuto i deputati salernitani fortemente contrari al viaggio del sovrano, e chiese addirittura di essere scortato a Napoli da un esercito straniero.
Si mossero 52mila austriaci armati di tutto punto, guidati dal generale Frimont. Il Papa si era astenuto, contrario a un intervento armato.

IL POPOLO IN ARMI. La notizia fece sobbalzare i parlamentari costituzionali e il 13 febbraio 1821, Matteo Galdi, un salernitano di grande spessore morale e politico chiamato a presiedere il primo parlamento costituzionale formatosi nella capitale, bollò con parole di fuoco il comportamento del re e l’avanzata degli austriaci su Napoli, avvisandoli che avrebbero trovato un popolo in armi.
Scattò la mobilitazione. La provincia di Salerno formò otto battaglioni al comando del generale Gaetano Bellelli, i quali fecero parte della divisione del generale Filangieri che Pepe destinò alla difesa della zona tra Itri e Fondi. Gli austriaci furono affrontati il 7 marzo tra Rieti e Androdoco dalle truppe insurrezionali del Carrascosa, ma il confronto, dopo un buon inizio, rivelò subito le pecche dei costituzionalisti. Guglielmo Pepe ebbe a che fare con continue diserzioni e ammutinamenti. Il 20 marzo il generale D’Ambrosio decise di far tacere le armi e arrendersi a Karl von Filcquelmont e il 24 marzo scortarono a Napoli re Ferdinando. Filcquelmont e sua moglie Dorothea, dalla bellezza leggendaria, diventeranno i padroni della capitale. L’occupazione austriaca costò milioni di fiorini al Regno delle Due Sicilie e si dovette ricorrere agli ingenti prestiti del banchiere tedesco Carl Rothschild, trapiantato a Napoli.

LE ULTIME TRAME DEI CARBONARI. I carbonari salernitani non accettarono la resa. A Salerno la casa di Gherardo Mazziotti divenne il covo delle ultime trame. Vi parteciparono con toni molto accesi i suoi fratelli Nicola e Giuseppe, il cugino Gianbattista e l’indomabile Rosario Macchiaroli. Decisero di sollevare di nuovo la provincia e partirono per le località dove erano più influenti. Macchiaroli fu tradito e assassinato a Eboli dagli uomini del famigerato Costa. Si ebbero sporadici fremiti di sommosse a Salerno con Pietro Sessa, che piantò a Largo Campo, davanti a una grande folla in festa, l’albero della Libertà, a San Valentino Torio, a Vietri sul Mare, a Fisciano, a Sala Consilina, a Valva, San Cipriano Picentino, Campagna, dove ci furono morti e feriti, Angri, San Marzano, Amalfi e Minori. Ovunque, però, prevalse la polizia e così Ferdinando potè calare la scure della vendetta, facendo eseguire centinaia di arresti, esecuzioni, torture ed esili. La grande avventura che aprì il Risorgimento italiano durò nove mesi. Gli indomabili salernitani ricominceranno nel 1828 con altri capi. Battuti di nuovo, ripresenteranno il conto nel 1848. E, infine, scenderanno al fianco di Garibaldi fino ai giorni dell’Unità d’Italia. Macchiaroli di Bellosguardo aveva visto giusto.

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